Gli Abbinamenti

Del vino Durello sorprende
la ricchezza degli accostamenti gastronomici con cui si sposa

“Una polverosità marina, un richiamo di gesso e iodio che lascia senza parole”.

Parola di Sandro Sangiorgi,
giornalista ed enogastronomo

Il Durello è uno dei vini più particolari e strani che si producano in Italia.

In gergo sportivo lo si sarebbe definito uno ‘sbirulo’, uno di quei personaggi dai quali aspettarsi di tutto, di difficile valutazione, che possono entusiasmarti come lasciarti con mille dubbi, ma certo non possono mai passare inosservati.
Si chiama Durella l’uva, ha trovato la sua zona di vocazione tra Verona e Vicenza, ma è tale la varietà dei terreni che la vastità delle province venete non spiega quale territorio davvero predilige: si chiama zona dei Lessini, e anche questo pur essendo più preciso ancora non dice tutto, in realtà è una striscia pedologica, una specie di substrato che caratterizza queste colline pre montane e che collega parte di Vicenza e Verona. Viaggia a cavallo di alcuni comuni che bisogna andarci per conoscerli, e allora si scopre un Veneto che non ti aspetti, una civiltà completamente diversa da quelle della vicina collina o della pianura, un modo di pensare più arcaico e che somiglia fatalmente alla durezza del vino, al suo essere asciutto, senza compromessi.

Cosa caratterizza questo posto?
In primo luogo è uno di quei siti con un residuo fossile davvero evidente, la presenza del mare lascia senza parole quando si visita il museo di Bolca, ma ancora di più quando si assaggia il Durello: questo bianco possiede una polverosità marina, un richiamo di gesso e iodio che lascia senza parole. Difficile sentire una corrispondenza tra vitigno e terroir tanto trascinante.
Si chiama Durello il vino, ha alcuni tratti inconfondibili, abbiamo detto dell’ incredibile contaminazione del sottosuolo, un dato da verificare nel tempo, sarebbe infatti interessante vedere come questo vino prende a evolversi: in effetti non manca al Durello il requisito fondamentale che è l’acidità, al punto da sembrare violento.
Se la spina vibrante ed energica gli permette di conservarsi non è detto che possa realmente farlo crescere, consentirgli di cambiare e trasformarsi come ogni grande vino, rosso o bianco, deve fare per essere di qualità.
Non è un caso che la tradizione locale vuole dal Durello un vino passito in modo che attutisca, acquieti la sua acidità. Gli estratti, la corposità non sono mai sopra le righe, fanno parte della fisionomia di un bianco agile, longilineo, al quale un eccesso di polpa potrebbe togliere il suo gesto distintivo, quasi aristocratico, in altre parole austero.

Il finale leva quasi il respiro, scatta una salivazione immediata, sentiamo l’acidità allungata sotto la lingua, appare un retrogusto amarognolo appena accennato e tornano i sottili sentori di terra bianca.
Il tutto con una furia che non lascia dubbi sulla visceralità del Durello.

Sandro Sangiorgi

di Alfredo Pelle
(Accademia Italiana della Cucina)

La Confraternita del Bacalà alla Vicentina

unzione principale della Confraternita è da una parte la tutela della tradizione della nostra cucina in uno specifico piatto, difendendone la sua straordinaria ricchezza di preparazione e contenuto, dall’altra la valorizzazione di quel patrimonio di civiltà e cultura che ogni piatto porta con sé.
Il riportare la mensa a quel luogo di agape -cioè posto di condivisione familiare di ospitalità e fulcro dell’intessersi sereno di rapporti umani- attorno ad un piatto che da sempre rappresenta in modo sintomatico la cucina vicentina è finalità non secondaria della nostra Confraternita.
È perciò, il nostro Sodalizio, un insieme di persone il cui vero motivo non è quello del mangiare (l’essere poi “specialisti” del baccalà porta, alcune volte, a dover sopportare esibizioni gastronomiche che necessitano di miglior sopportazione della nostra…) ma quello di saper valorizzare una parte della nostra cultura che vede anche nella gastronomia un divenire e modificarsi degno di attenzione.

Voglio a tal proposito raccontarVi un piccolo episodio che collega l’Accademia Italiana della Cucina (massimo sodalizio a tutela della tradizione e della cultura gastronomica in Italia) ed il nostro piatto.
Orio Vergani, giornalista e scrittore oltre che fondatore nel 1953 dell’Accademia, in un suo mattutino girovagare per Vicenza, sentì rumore di colpi battuti nella vicina piazza delle Erbe e si avvicinò, incuriosito, ad un uomo che su un ceppo di legno stava battendo, in modo cadenzato e delicato, un baccalà. Chiesti lumi si sentì rispondere in modo fermo:“Cossa fasso? Bato el bacalà e se vien doman, sentirà cossa magnarà!!”

Difficile resistere alla suggestione di questo racconto per persone come noi che credono sia questo il caposaldo dei piatti di tradizione della nostra cucina.
E che anche da ciò sia nata l’Accademia è vanto per noi… Cosa abbiamo fatto nel periodo?
Un itinerario di ristoranti che fanno baccalà secondo regole consolidate, innumerevoli presenze in TV, difesa ad oltranza da “innovatori” della ricetta che stravolgono le tradizioni (penso a Vissani che vorrebbe il bacalà cotto in 15 minuti…), sostegno culturale alle scuole Alberghiere, premi agli studenti per ricerche sul baccalà, conferenze, beneficenza.
Il tutto a difesa di un piatto che un poeta vicentino ritiene sia così valido da fargli dire:

“Ciò, co ‘sto bàlsemo,
co ‘sto bombon,
anca le moneghe
perde el timon.”
E le nostre donne
non son neanche monache

di Alfredo Pelle
(Accademia Italiana della Cucina)

La Confraternita del Pamojo

Quando si dice pamojo…(pan mojo, pane ammollato) si rievocano i sapori di un tempo… si rivive un’epoca in cui in casa non si buttava niente: prima di tutto perché c’era ben poco da buttare ma soprattutto perché, almeno nel mondo contadino si cresceva con l’idea che il pane meritasse il massimo rispetto, al punto che, per rimetterne sulla tavola un tozzo accidentalmente caduto a terra, bisognava baciarlo. Il pane andava mangiato, fino all’ultima briciola.
E guai appoggiarlo sulla tavola con la crosta rivolta verso l’ alto!
Il pane che non si mangiava col “companadego” (solitamente scarso e scadente, ma averne!) veniva utilizzato per confezionare piatti veloci, ma forti. Piatti unici per gente che si alzava alle quattro del mattino, in estate, per andare a falciare l’erba nei prati. Alle otto, un buon piatto di “panà” (una variante povera del pamojo, fatta con pane raffermo) o di pamojo risolveva egregiamente il problema della fame che montava.
E riappaiono, allora, alla mente tanti ricordi di albe iridate, di tramonti inebriati dall’”aspro odor de i vini” di carducciana memoria, di campi ondeggianti di spighe, pronte a cadere sotto il colpo della falce, di gente che nei campi faticava e cantava, durante la mietitura o la vendemmia, accontentandosi di ciò che la terra, talvolta avara e matrigna, offriva per la quotidiana sopravvivenza.
Gente che abbiamo visto in tanti film (chi non ricorda “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi?), gente puntigliosamente descritta e raccontata in tanti libri da Dino Coltro, gente che nessuno vuole dimenticare perché depositaria di valori che, oggi, sembrano definitivamente surclassati da altri più attuali, più moderni e consumistici e, proprio per questo, più sfuggenti ed effimeri.Ebbene, per questa gente, fare il pamojo significava soprattutto obbedire al rito del rispetto per il pane. Il risultato era un tipico “piatto povero”, non certamente da un punto di vista nutrizionale, ma per la semplicità degli ingredienti: brodo con acqua, patate e zucca, un soffritto di cipolla, pomodoro, lardo e pane biscottato casareccio, cotto nel forno a legna che serviva all’intera contrada.

Tutto sembrava essersi perduto nella notte dei tempi, soppiantato da parenti “più nobili”, figli del boom economico, in una realtà che porta a dimenticare perfino le proprie radici. Altri piatti poveri dello stesso genere, come la “ribollita” toscana, sono, da tempo, assurti agli onori della ristorazione di alta qualità: non c’è, oggi, a Firenze e dintorni, ristorante che non la preveda nel menù, sia pure in diverse versioni che, tuttavia, non le hanno fatto perdere l’originario carattere “ruspante”.
Ma, finalmente, tutto lascia intendere che sia giunto, ormai, il tempo della riscossa anche per il pamojo, dapprima ad opera di un ristoratore di Roncà (agriturismo da Gasparin, via Nieri, 19 tel. 0457 460 222) che da tempo lo ha adottato come piatto forte da offrire ai suoi clienti e, più recentemente, per merito di un gruppo di amici che hanno pensato bene di salvaguardarne, nel tempo, il buon nome creando una confraternita ad esso espressamente intitolata.
Sette sono i soci fondatori: Brizio Pressi, presidente, Luciano Nardi, vicepresidente, Giamberto Bochese, sindaco di Roncà, dove ha sede la confraternita e segretario della stessa, cui si aggiungono i quattro consiglieri Mariano Spillare, Gian Paolo Braggio, Virgilio Primon e Giovanni Albanese.

La confraternita è un organismo aperto… ma non troppo, dal momento che per farvi parte, oltre che essere buongustai del pregiato cibo che le dà il nome, occorre presentare le proprie credenziali che vengono, caso per caso, attentamente vagliate dal Consiglio direttivo. Attualmente l’esame è stato brillantemente superato da una settantina di persone, appartenenti ai ceti più diversi, provenienti da paesi situati al confine tra le province di Verona e Vicenza dove sembra che la tradizione della gustosa pietanza fosse particolarmente radicata e diffusa.
Difficile immaginare che tante persone si riuniscano solo per mangiare pamojo, sia pure doverosamente annaffiato da un buon bicchiere di Durello, anch’esso da poco assunto nell’Olimpo della Doc e giustamente tutelato mediante la creazione di un Consorzio di oltre trenta comuni produttori. Scorrendo gli obiettivi e le finalità che la confraternita si propone di realizzare si intuisce subito che le intenzioni dei soci vanno ben oltre in quanto si propongono di:

– riunire cultori e amatori dell’enogastronomia e della storia dei monti Lessini e dei colli Berici
– promuovere iniziative per valorizzare il pamojo, il buon bere e, in particolare, i vini e la cucina tipica locale
– rievocare e ricercare usi e costumi della zona
– promuovere e sostenere iniziative culturali, sociali, di solidarietà e beneficienza.

Si tratta di un impegno che non trascura, come si può ben vedere, il buon mangiare e il buon bere, ma che va oltre, proprio per le ragioni che si dicevano in apertura e che finiscono per prevalere su altre motivazioni, più prosaicamente legate alla soddisfazione del gusto.
Rievocare i cibi e i costumi di un tempo ormai passato significa riviverne i valori anche, perché no, con un pizzico di nostalgia e di rimpianto.